lunedì 26 aprile 2010

Contemplare Cristo. Il vincitore ha il volto del Padre (Timothy Verdon)


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Contemplare Cristo

Il vincitore ha il volto del Padre

Pubblichiamo quasi integralmente il testo della conferenza che si tiene, nella serata di lunedì 26 aprile, nel duomo di Torino nell'ambito degli appuntamenti che accompagnano l'ostensione della Sindone.

di Timothy Verdon

"Questa infatti è la volontà del Padre: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna" (Giovanni, 6, 40). Ecco, nelle parole dello stesso Gesù, il motivo per cui, questa volta come altre volte, da prima mattina a notte fonda i pellegrini sfilano davanti alla Santa Sindone (...) È infatti la volontà del Padre che chiunque vede il Figlio e crede in lui viva in eterno. I pellegrini, tra cui anche persone anziane vicine alla morte, desiderando la vita vengono qui, e siamo venuti anche noi, perché nell'uomo torturato e ucciso la cui forma è impressa nel telo è possibile contemplare Cristo, vedere il quale con fede dà la vita eterna. Certezza assoluta che sia proprio lui non c'è, è vero, ma ciò è secondario. Colui che, nell'ultimo giorno - a quanti non l'avranno mai visto ma in qualche circostanza avranno sfamato un povero - dirà: "Quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Matteo, 25, 40), ecco, quello si fa vedere come vuole, anche in altri, anche nell'uomo della Sindone.
Il desiderio di vederlo però - proprio lui - rimane, acutizzato dagli scritti sacri giudeo-cristiani che caratterizzano l'anelito umano verso Dio soprattutto in termini di visio. "Mostrami la tua gloria!", Mosè chiese a Jahvè, rimanendo tuttavia deluso quando Questi gli rispose: "Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restar vivo" (Esodo, 33, 18-20). La brama dell'uomo di vedere Dio verrà finalmente soddisfatta nella persona di Cristo, e il vangelo di Giovanni, all'affermazione "il Verbo si fece carne e venne a abitare in mezzo a noi", aggiunge subito: "e noi "vedemmo" la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità" (Giovanni, 1, 14).
A scanso di equivoci, l'evangelista rimanda all'antico divieto, ricordando che mentre "la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo", e insiste: "Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Giovanni, 1, 17-18). Lo stesso quarto vangelo narra l'assicurazione data da Cristo ai suoi discepoli, che "chi vede me vede Colui che mi ha mandato" e "chi ha visto me ha visto il Padre" (Giovanni, 12, 45 e 14, 9), e un altro scritto giovanneo afferma che in lui, Cristo, "la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi" (1 Giovanni, 1, 2) - visibilità, questa, sintetizzata in un testo paolino che asserisce che Cristo "è l'immagine del Dio invisibile" (Colossesi, 1, 15). Nelle ostensioni della Sindone come già in quelle della Veronica i pellegrini non cercano solo l'uomo ma Dio, il cui amore è visibile nelle sofferenze di Gesù Cristo.
Il senso dell'arte nella vita della comunità credente va compreso all'interno di questa ricerca. Un padre della Chiesa, san Giovanni Damasceno, infatti spiega l'uso cristiano delle immagini affermando che "un tempo, non si poteva fare immagine alcuna di un Dio incorporeo e senza contorno fisico (...) ma ora Dio è stato visto nella carne e si è mescolato alla vita degli uomini, così che è lecito fare un'immagine di quanto è stato visto di Dio". Scrivendo nel contesto dell'interdizione delle immagini da parte dell'imperatore di Bisanzio, l'iconoclasta Leone iii nell'anno 730, questo autore - nato cristiano in una Damasco già allora sotto controllo musulmano - vedeva un nesso tra il dogma teologico dell'Incarnazione e l'uso ecclesiastico di immagini, soprattutto quelle raffiguranti Gesù stesso.
È per questo motivo che, nell'occasione della presente ostensione della Sindone, è stata allestita una mostra di dipinti, sculture e opere d'oreficeria alla reggia di Venaria Reale: "Gesù. Il corpo, il volto nell'arte" (...) Al centro della mostra è la grande sezione intitolata "Un corpo dato per amore", che invita a scoprire l'identità di Cristo nel mistero della sua passione, morte e sepoltura. È la sezione più estesa, occupando più di un terzo dello spazio a disposizione 50 metri lineari delle monumentali scuderie juvarriane. È suddivisa in più parti, corrispondenti agli eventi portanti alla crocifissione; alla crocifissione stessa; e alla deposizione dalla croce, al compianto e alla sepoltura. Corpo e volto insieme ora, drammaticamente eloquenti, rivelano la personalità dell'uomo che si offre: nell'opera con cui la sezione apre, la Orazione nell'orto di Simone Peterzano, dove Gesù accetta di bere il calice della sofferenza; nel superbo Gesù incoronato di spine di Correggio; nello straordinario volto del Salvatore di Giorgione nel dipinto Gesù e il manigoldo; e nel dolcissimo Gesù portacroce del Garofalo, che sembra chiedere la nostra comprensione, compartecipazione, compassione. È collocata in questa sezione la celebre Narratio passionis di Hans Memling, prestata dalla Sabauda.
Al centro del percorso espositivo una foresta di croci e crocifissi grandi e piccoli invita a capire l'impatto del corpo di Gesù dato per amore sull'idea della persona che l'arte occidentale ha articolata - un'idea non solo di fragilità e vulnerabilità, ma anche di dignità, di libertà, di donatività. Nell'Europa che oggi contesta questo segno, crocifissi romanici e gotici francesi, tedeschi, italiani e catalani; crocifissi rinascimentali di Donatello e di Antonello Gaggini, e la monumentale croce d'argento di Antonio Pollaiuolo del Battistero di Firenze; raffinati corpora Christi manieristici di Guglielmo della Porta e di Giambologna. E all'epicentro assoluto, oltre questa "foresta", il crocifisso che Michelangelo Buonarroti realizzò per la basilica di Santo Spirito a Firenze, allestito com'era in origine su un altare, in una luce che evoca quella diurna della chiesa brunelleschiana. Delle sedute ai piedi di questo altare permettono al visitatore di fermarsi, di raccogliersi, e di contemplare l'opera "di sott'insù" - dall'angolazione cioè che Michelangelo doveva aver in mente quando scolpì questa figura per la comunità agostiniana che si radunava nel coro intorno all'altar maggiore della loro chiesa. Le splendide fotografie realizzate per l'occasione da Aurelio Amendola colgono l'interesse dell'opera, al contempo spirituale e sensuale: non l'austero Christus patiens del Medioevo, ma un giovane dal corpo efebico in cui albeggia già la Pasqua.
Secondo i vangeli, Gesù non rimase infatti prigioniero della morte ma, liberandosi della sindone, risuscitò il mattino di Pasqua. La mostra prosegue quindi con la sezione "Il corpo risorto", introdotta da una grande tela di Rubens in cui, seduto sulla tomba e ancora avvolto nella sindone, vediamo un Gesù dalla corporatura iperbolica, immaginato come "trionfatore", vincitore di una battaglia epica. Mors et vita duello, conflixere mirando.
Alcuni dipinti in questa sezione esplorano le sue relazioni dopo la risurrezione con i discepoli: il rapporto particolare con Maria Maddalena, per esempio, che emerge nel lussureggiante Noli me tangere di Federigo Barocci, dove la prossimità dei due corpi allude a una sponsalità trasfigurata in senso pasquale. Altre opere suggeriscono la salita del Risorto al Padre: raffigurazioni della Santissima Trinità in cui il corpo risorto di Gesù appare sovrapposto all'Eterno, come per illustrare la sua affermazione: "Chi ha visto me, ha visto il Padre". In un dipinto eseguito da Lorenzo Lotto, Gesù risorto ascende verso un Padre invisibile, la cui sagoma appare larvata dietro a lui; e mentre le mani del Padre sono alzate, come per accogliere il Figlio che sale, quelle di Gesù, con le ferite ben visibili, sono stese verso la terra rinnovata dal suo sangue; e in una piccola tavola del maestro trecentesco Nicoletto Semitecolo, il senso spirituale del sacrificio corporeo di Gesù emerge dal fatto che l'artista lo fa vedere vivo e con gli occhi aperti, crocifisso non al patibolo di egno, ma direttamente alle mani del Padre.
Le ultime due sezioni della mostra, "Il corpo mistico" e "Il corpo sacramentale", offrono le chiavi ermeneutiche di tutto il resto. Illustrano il concetto corporeo che la comunità credente ha di se stessa - la nostra convinzione di essere "corpo" di Gesù; e suggeriscono lo strumento mediante il quale tale collettiva "identità corporea" viene plasmata, nutrita, irrobustita nei secoli: il sacramento eucaristico per la cui celebrazione la maggior parte delle opere in mostra sono state realizzate. L'asserto di una mistica identità corporea con Gesù viene tradotta in immagine anche in modo piuttosto fisico, come suggerisce l'opera che introduce nella sezione sei, la Mater misericordiae da Gradara, dove la Vergine incinta - con Gesù ben visibile nel suo grembo - accoglie sotto il manto esteso un gruppo di donne e uomini in preghiera. Maria, figura della Chiesa, viene presentata cioè come madre di Gesù e madre di quanti credono in lui: dal suo corpo nasce sia il corpo fisico del figlio, sia quello mistico comunitario.
A questa "comunione" dei santi con Gesù alludono molte formule iconografiche cristiane: l'assemblea dei beati intorno al trono di Cristo in cielo; il martirio di un santo raffigurato sopra l'altare eucaristico; immagini di santi che, mentre contemplano Gesù crocifisso, fanno penitenza corporea; raffigurazioni di mistica comunione, come la visione in cui san Bernardo di Chiaravalle viene invitato a bere dal costato del Crocifisso; e reliquiari antropomorfi contenenti parti di corpi dei santi, tipicamente collocati in prossimità ad altari eucaristici.
L'ultima sezione della mostra esplicita queste idee con immagini che collegano la fede eucaristica di santi e di credenti comuni al corpo di Gesù. L'opera introduttiva, una pala di Moretto da Brescia in cui i santi Bartolomeo e Rocco, contemplando l'Eucaristia sull'altare, vedono in cielo il corpo fisico di Gesù, illustra la chiarezza ma anche la complessità del tema. Vista dai fedeli durante la messa celebrata davanti a essa, l'immagine invitava ad associarsi all'identificazione dei martiri e santi sofferenti con il Cristo sofferente e risorto, del cui corpo sono "membra" quanti ne mangiano nel pane eucaristico. Tra le altre pale d'altare esposte qui vi è quella di Charles Dauphin prestata da questa vostra cattedrale, La mistica comunione di sant'Ireneo, in cui è lo stesso Salvatore risorto a dare al santo il pane della vita eterna.
L'uso di immagini sacre e di splendide suppellettili nel contesto della liturgia è servito nei secoli a manifestare il particolare rapporto che, grazie all'Incarnazione di Cristo, sussiste tra "segno" e "realtà" all'interno dell'economia sacramentale della Chiesa - un rapporto la cui dinamica è conosciuta non solo dai dotti ma anche dai semplici. Tale rapporto, invero, traspare in tutto che l'uomo associa al culto divino: dai vasi sacri e tessuti alle più monumentali costruzioni architettoniche. L'uso delle "cose" nella liturgia della Chiesa rivela e attualizza la vocazione del mondo infraumano, chiamato insieme all'uomo e per mezzo dell'uomo a rendere gloria a Dio.
Per un processo misterioso e nel contempo semplice, questa "rivelazione" diventa poi parte della fede vissuta, specialmente nell'ambito del culto eucaristico: trovando Dio presente nella materia, il credente è portato a cogliere la nuova dignità di ogni cosa materiale, diventata ormai - almeno tendenzialmente - "ostensorio", come ogni "vedere" umano è ormai chiamato a farsi adorante contemplazione del Salvatore crocifisso e risorto.
Tuttavia il soggetto dell'esperienza estetica, come dell'esperienza cultuale, rimane l'uomo: è a lui e alla sua corporeità che parlano i colori e le forme, il fruscio della seta, lo scintillio dell'oro, lo spazio "mistico" o "razionale" dell'architettura sacra. L'arte che fa vedere Cristo, insieme a veri "specchi del suo Vangelo" quale la Sindone, invitano a contemplare Cristo che prende forma in noi, speranza di gloria, bellezza di vita eterna. "Adesso [lo] vediamo in modo confuso, come [appunto] in uno specchio; allora invece [- nel regno dove ci ha preceduti e dove ci attende - lo] vedremo faccia a faccia" (1 Corinzi, 13, 12).
E in lui visto e conosciuto e amato comprenderemo finalmente che il senso della nostra vita anche corporea, della nostra carne, degli affetti, dei ricordi, e del sangue, suo e nostro, di ogni persona umana tradita, sacrificata, uccisa. Il poco sangue della Sindone (di Gesù? O di un altro crocifisso?) si rivelerà allora un oceano, un "Mare rosso" attraverso cui Cristo ci conduce alla terra promessa, come in uno straordinario dipinto mistico di Guillaume Courtois nell'ultima sezione della mostra. In quest'opera il Salvatore, come un nuovo Mosè stende sul peccato umano non un bastone, ma il legno della croce, che apre nel mare della nostra sofferenza una strada verso il Padre; offrendosi, diventa egli stesso "via", e a raccogliere il suo sangue è la Madre, la Chiesa figurata in Maria, colei da cui Cristo prese il corpo offerto, il sangue versato - la Chiesa che, durante il loro esodo, nutre i figli con il Corpo e il Sangue del Figlio di Dio.

(©L'Osservatore Romano - 26-27 aprile 2010)

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